Coronavirus, pronta la app italiana per tracciare i contagi: «Così possiamo fermare l’epidemia»

18 Marzo 2020

Permette di ricostruire i movimenti delle persone positive al coronavirus e di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio. Sviluppata da aziende italiane e pensata per la Protezione civile aspetta il via libera del governo

«Abbiamo già sviluppato una app da scaricare sui cellulari che permette di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo. Stiamo facendo gli ultimi test e siamo pronti a metterla a disposizione della Protezione civile». Luca Foresti è l’amministratore delegato della rete di poliambulatori specialistici Centro medico Santagostino. Ex normalista (a Pisa ha studiato fisica e matematica) con esperienze nella finanza etica e nell’imprenditoria digitale, sta lavorando con i maggiori esperti italiani di big data a un progetto senza fini di lucro per mettere l’analisi dei database e la geolocalizzazione digitale al servizio del contenimento dell’epidemia di Covid-19. Insieme hanno formato una onlus sotto la direzione tecnico-scientifica del presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi, e con la valutazione tecnica dell’ex commissario per l’Agenda Digitale Diego Piacentini, a cui lavorano Bending Spoons, la più importante azienda italiana che fa app; Jakala, una società di marketing digitale con grandi competenze sulla georeferenziazione; e Geouniq, che ha sviluppato un programma di geolocalizzazione capace di individuare la posizione di un cellulare (compreso il piano del palazzo a cui si trova) con un errore di soli 10 metri.

A cosa serve la app?
«A limitare e contenere i contagi intervenendo sui focolai in modo mirato, chirurgico. L’isolamento deciso dal governo in questo momento è fondamentale, ma dobbiamo pensare a degli strumenti per il dopo, quando il virus sarà diminuito ma non del tutto scomparso e dovremo prevenire che si diffonda di nuovo».

Come funziona?
«È una applicazione scaricabile sul cellulare che permette, una volta individuati i positivi, di ricostruire tutti i loro movimenti nelle settimane precedenti e di mandare un messaggio a coloro con cui sono entrati in contatto per segnalare che sono a rischio e devono mettersi in autoquarantena. In questo modo si ferma la diffusione del virus. È lo stesso approccio sperimentato in Corea del Sud, a Singapore e in parte in Cina, che si è rivelato molto efficace».

Uno dei problemi però è che molte persone positive, con sintomi lievi, non vengono rilevate perché non sono sottoposte ai tamponi…
«La app ha anche un “diario clinico” per la early detection, l’individuazione precoce delle infezioni. Una sezione in cui i singoli utenti possono registrare in modo anonimo eventuali sintomi. I dati così raccolti permettono di prevedere se ci sono delle zone in cui si sta diffondendo il contagio. Oggi invece facciamo i test solo alle persone che si aggravano: significa che rileviamo i casi quando ormai sono vecchi di almeno dieci giorni. E quindi hanno già contagiato altri. Sapere se oggi a Milano, per esempio, c’è un improvviso aumento di persone con la febbre significa poter intervenire subito con la quarantena e l’isolamento preventivo. Poi certo è auspicabile fare test a tappeto: speriamo che si arrivi anche a quello».

Si possono rilevare anche gli spostamenti “eccessivi” come quelli che sono stati denunciati in questi giorni in Lombardia?
«Sì, siamo già in grado di rilevare su base statistica (e quindi anonima) assembramenti a rischio o di dire quali comuni hanno comportamenti sbagliati e quindi devono rivedere le politiche di contenimento. Non solo, questi dati possono essere incrociati con quelli dell’Istat per tracciare ulteriori mappe di rischio». Quali dati Istat? «L’Istat divide tutto il territorio nazionale in “cellette” di 65 famiglie. Per ognuna di esse abbiamo la distribuzione della popolazione in base all’età: se sappiamo che in un determinato territorio c’è una maggiore concentrazione di anziani, sappiamo che c’è una più alta probabilità di avere vittime e che quindi dobbiamo pensare a interventi mirati per quella zona».

Chi avrebbe accesso a questi dati?
«La Protezione civile, che così potrebbe intervenire in tempo reale per prevenire i comportamenti sbagliati o predisporre la risposta sanitaria. E poi la comunità scientifica. La ricerca scientifica è fondamentale per sconfiggere il coronavirus, ma deve essere veloce: per questo deve avere dati il più possibile precisi. Infine la app funziona anche nel verso opposto: permetterebbe di informare e seguire i cittadini preoccupati o con sintomi, che adesso non sempre riescono a raggiungere i numeri di emergenza».

In tutto questo però c’è il problema della privacy: siamo in una democrazia, è un diritto fondamentale delle persone.
«Ne abbiamo tenuto conto fin dall’inizio e abbiamo sviluppato la app in collaborazione con Giuseppe Vaciago, avvocato ed uno dei maggiori esperti nella protezione dei dati sensibili in Italia. La app non rivela né i dati anagrafici né il numero di telefono delle persone».

In Corea ci sono stati problemi perché la ricostruzione dei movimenti dei contagiati ha fatto capire chi erano e cosa facevano.
«Noi non rendiamo pubblici i tracciati, ma avvertiamo in modo automatico coloro che sono stati in posti dove c’erano positivi».

Cosa vi manca per partire? State aspettando l’autorizzazione del governo? Ci sono anche altre realtà che stanno lavorando a strumenti simili…
«Siamo in contatto con il ministero per l’Innovazione digitale guidato da Paola Pisano, che ci ha dato il suo supporto. E siamo pronti a collaborare e unire le forze con chiunque abbia sviluppato altri strumenti utili».

Fonte: Corriere della sera – tecnologia

Tracciamento digitale? Si può fare. Bolognini spiega come

Contract tracking all’italiana, tra diritti e libertà. Nel 2020 la lotta al Covid-19 passa anche per il digitale. Conversazione di Formiche.net con il presidente dell’Istituto per la privacy Luca Bolognini

Da settimane c’è un acceso dibattito in Italia, tra favorevoli e contrari all’uso dei Big Data, in particolare con riferimento al monitoraggio dei dati di localizzazione degli smartphone, nella lotta al coronavirus. Paesi come Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore hanno avviato iniziative in tal senso. Ieri l’annuncio del ministro dell’Innovazione Paola Pisano che ha lanciato un’iniziativa per limitare il contagio da coronavirus. Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy spiega a Formiche.net limiti e prospettive della nuova task force di Palazzo Chigi per il tracciamento digitale.

Quali problemi si pongono per il cosiddetto contact tracking in Italia?

In Italia, come nel resto d’Europa, assistiamo ad un incontro-scontro al vertice tra diritti e libertà. Abbiamo i diritti alla vita e alla salute, da una parte, e i diritti alla privacy e alla protezione dei dati personali, dall’altra. Naturalmente, prevalgono con urgenza salute e vita. Ma attenzione: i diritti alla privacy e alla protezione dei dati sono strumentali alla tutela di libertà e dignità delle persone, oltre che alla salvaguardia della democrazia. In questo senso, sbaglia chi deride o sminuisce la privacy.

Il nodo principale resta come utilizzare le tecnologie digitali impattando il meno possibile sulla privacy degli utenti. Come valuta la convivenza con il tracciamento digitale dei potenziali contagiati da Covid-19?

I principi di ragionevolezza e di proporzionalità impongono di trovare soluzioni che funzionino e raggiungano il risultato senza distruggere l’essere umano. Le faccio un esempio metaforico, provocatorio, surreale ma semplice da cogliere: sappiamo che il calore uccide il Covid-19. Bene. Avrebbe dunque senso bruciare vivi i contagiati, così da uccidere il virus? Ovviamente, no. Ma evitiamo anche inutilità: servirebbe un sistema di tracciamento soltanto anonimo e aggregato, che non consentisse il tracking dei singoli contagiati e dei loro contatti stretti? Probabilmente no, se non per finalità di intelligence politica generale. Non esiste la forma anonima, se posso tracciare gli spostamenti di un individuo. E in alcuni casi sarà giusto e indispensabile non trattare solo dati anonimi. Un sistema di tracing, se deve essere realmente utile a contrastare il virus e pertanto giustificato, non può essere anonimo.

Anche Facebook avrebbe messo a disposizione dei ricercatori set di dati anonimi. Quali sono le strategie per evitare l’uso improprio di questi dati?

Ben vengano i dati anonimi per orientare velocemente le policy di chi governa la macchina pubblica, in queste concitate fasi d’emergenza. Ma, a dire il vero, se passasse una normativa abilitante per questo tracciamento digitale antivirus, io mi aspetterei che Facebook e gli altri over the top contribuissero anche con dati non anonimi. Peraltro, Facebook è sempre stato molto pronto nel sostegno delle popolazioni in difficoltà ed emergenza, si pensi alle funzioni che attiva in caso di terremoti e altre calamità, da anni.

Bolognini, la domanda che si pongono un po’ tutti  è se il governo possa attivare un monitoraggio di questo tipo, così invasivo e generalizzato, in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo in assenza di una legislazione specifica? Esistono dei precedenti… Quali sono le condizioni necessarie?

Si può fare, senza perdere tempo. Chiudiamo due o tre esperti veri di privacy e protezione dei dati nella war room in cui stanno lavorando epidemiologi, medici, informatici, innovatori e Protezione Civile, a progettare insieme il sistema. Il margine di manovra per comprimere la privacy, senza annientarla, è fissato nel Regolamento europeo (il Gdpr, all’art. 23) e nella Direttiva ePrivacy del 2002 (all’art. 15). L’articolo 14 del Decreto Legge 14/2020 permette già al sistema della protezione civile di trattare dati, anche sensibili, per il contrasto all’epidemia.

Ci spieghi meglio…

Basta integrare quell’articolo in fase di conversione del decreto, tra pochi giorni, prevedendo espressamente che la Protezione Civile, il ministero della Salute e chi li aiuta nella guerra al virus possano trattare anche dati di traffico telefonico, telematici e di localizzazione, e dati archiviati sui terminali degli utenti, per combattere e vincere la sfida. Prevedendo, nella stessa norma, termini temporali certi ed un meccanismo di controllo costante e periodico, ad intervalli stretti, sulla persistenza dei requisiti di necessità e dei livelli di efficacia che giustificano l’adozione di questo tracciamento digitale. Il Garante della Privacy può essere l’autorità giusta per questo controllo, anche se la straordinarietà del congelamento di diritti e libertà mi porterebbe perfino ad immaginare un ruolo di questo genere, più “operativo” del normale, per la Corte Costituzionale.

Fonte: Formiche.net – Analisi, commenti e scenari

Coronavirus, controlli con i droni, sequestro dell’auto e multe fino a 3 mila euro. Un’app per i contagiati

23 Marzo 2020

Nuova stretta del governo per fermare l’epidemia: il decreto potrebbe essere varato già lunedì. Ordinanza dell’Enac autorizza il «monitoraggio degli spostamenti» nelle aree urbane

Multe e sequestro delle auto o delle moto per chi non rispetta i divieti, droni per monitorare gli spostamenti dei cittadini. Nella lotta contro il contagio da coronavirus il governo vara norme più incisive per impedire alle persone di andare in giro «senza comprovati motivi». E lo fa con un decreto che potrebbe essere approvato già oggi dal consiglio dei ministri. Un provvedimento ritenuto necessario visto che i controlli effettuati in tutta Italia portano ogni giorno a migliaia di denunce, ma soprattutto dimostrano che il rischio di essere scoperti non rappresenta affatto un deterrente. Appare infatti assai difficile che, quando l’emergenza sarà finita, nei tribunali possano essere istruiti processi per la violazione dell’articolo 650 del codice penale e inflitte sanzioni da 206 euro. In Lombardia le multe sono già state previste con un’ordinanza del governatore Attilio Fontana. E dal governo è stato chiarito che le ordinanze regionali possono essere emesse «se non entrano in conflitto con quanto previsto dai decreti del presidente».

 

I positivi «tracciati»

Per monitorare chi è stato contagiato si pensa di utilizzare un’applicazione che i cittadini risultati positivi al tampone del Covid-19 dovrebbero scaricare sul proprio smartphone in modo da consentire alle autorità di verificare attraverso le reti telefoniche e wi-fi se siano entrati in contatto con altre persone che a loro volta sarebbero sottoposte a controllo. Le autorità assicurano che non ci sarebbe una «profilazione» — come invece sarebbe accaduto in Cina e Corea — ma su questo dovrà intervenire il garante della privacy che ha già elencato le modifiche necessarie all’attuale normativa. Su questo il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro è rassicurante: «La app servirà non solo per tracciare, ma anche per assistere e coniugherà i valori di democrazia e libertà con il distanziamento sociale».

Il monitoraggio

Ieri, con un’ordinanza emanata dall’Enac, sono ufficialmente entrati in funzione i droni per il «monitoraggio degli spostamenti dei cittadini». Nel documento è specificato che «le operazioni condotte con sistemi aeromobili a pilotaggio remoto con mezzi aerei di massa operativa al decollo inferiore a 25 kg, nella disponibilità dei Comandi di polizia locale, potranno essere condotte in deroga ai requisiti di registrazione e di identificazione». E si sottolinea che si potranno effettuare i controlli «anche su aree urbane dove vi è scarsa popolazione esposta al rischio di impatto». Per questo «fino al 3 aprile 2020 si possono usare i droni nelle aree prospicienti tutti gli aeroporti civili e identificate come “aree rosse”, ad una quota massima di 15 metri».

Multe da 2 mila euro

La multa potrà arrivare fino a 2.000 forse 3.000 euro, il mezzo potrà essere sequestrato o sottoposto a fermo amministrativo. Sono questi i dettagli da mettere a punto, ma sulla necessità di imporre una stretta per fermare chi va in giro non c’è alcun dubbio. Del resto i numeri del Viminale non sono affatto confortanti: dall’11 al 22 marzo sono stati controllati circa 2 milioni di cittadini e denunciati oltre 92mila. E questo nonostante ci siano migliaia di persone già contagiate e altre migliaia vittime del coronavirus. Anche per questo il Viminale ha emesso ieri un nuovo modulo per l’autocertificazione in cui bisogna specificare l’indirizzo da cui si parte e quello dove si arriva oltre a giustificare lo spostamento.

Fonte: Il Corriere della Sera – Cronache

Gianni Rezza (Iss) perde l’aplomb: “La privacy? È una cazz…, il metodo coreano serve”

23 Marzo 2020

Intervistato dalla Stampa, il direttore del dipartimento malattie infettive sostiene che “siamo in guerra e bisogna rispondere con tutte le armi che abbiamo”. Quindi anche mappare gli spostamenti con il Gps

“Va bene aver chiuso fabbriche e uffici, ma bisogna adottare il metodo coreano per rintracciare e isolare i positivi. Anche mappando gli spostamenti con il Gps dei cellulari”. Lo sostiene il direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza, in una intervista a La Stampa. E la privacy? “Lo scriva per favore, sono c…, siamo in guerra e bisogna rispondere con tutte le armi che abbiamo”.

Secondo Rezza, bisognerebbe seguire il modello coreano e fare più test per accertare la positività al coronavirus: “Sì. Loro hanno effettuato test rapidi ed estesi ma mirati, utilizzando la mappa degli spostamenti di ciascun positivo accertato, ottenuta utilizzando il Gps dei cellulari. Così sono riusciti a individuare e a isolare i soggetti a rischio. Poi hanno utilizzato le informazioni per creare App che hanno consentito ai cittadini di individuare le aree di maggior transito di potenziali contagiati, così da evitarle o adottare il massimo delle precauzioni. Una strategia efficace che ha consentito di ridurre molto la crescita della curva epidemica. Anche se manca ancora un tassello”. Quale? “Quello della trasmissione intra-familiare. Abbiamo centinaia di migliaia di persone in quarantena perchè positive – spiega Rezza – o a rischio di esserlo che in casa non riescono a garantire il distanziamento necessario. Se c’è un positivo, questo dovrebbe dormire in una stanza separata, non mangiare con gli altri, usare un suo bagno e i suoi asciugamani. Difficile per una larga parte degli italiani. Se non teniamo conto di questo il fermo delle attività produttive non basterà”.

Rezza pertanto si spinge ancora più in là e promuove il modello cinese. “Seguire l’esempio e isolare le persone che non sono nelle condizioni di fare la quarantena in casa. Magari requisendo alberghi e caserme”.

Fonte:  Huffpost

Call e attività via web: anche la privacy va in quarantena

23 Marzo 2020 

Le app per videochiamate chiedono il consenso all’uso dei dati personali: senza, niente servizio. Arrivano i sistemi per tracciare chi esce da casa
di Antonello Cherchi e Marisa Marraffino

«Ci vediamo in videoconferenza». O ancora: «Ragazzi, domani lezione online». Messaggi che in questi giorni sono diventati popolari. E scatta la corsa per scaricare le applicazioni che consentono di vedersi e sentirsi a distanza,da Google Hangouts a Zoom a Meetings. Per citarne solo alcune. La necessità è dotarsi degli strumenti che ci consentano di lavorare stando a casa e permettano di assicurare agli studenti un minimo di continuità didattica in questi tempi di serrata prolungata delle scuole.

Non ci si sofferma troppo, pertanto, sulle richieste delle app in fase di registrazione, quando ci si chiede di acconsentire all’uso dei nostri dati personali – dall’agenda telefonica alle foto caricate sul dispositivo che stiamo utilizzando – per poter accedere al servizio. Pur di riuscire a collegarsi con i nostri colleghi o non perdere la lezione della professoressa si dice “sì” a tutto. Di questi tempi, anche i più attenti al problema della privacy non vanno troppo per il sottile. Perché le priorità sono ben altre.

Il diritto alla tutela dei dati passa in secondo piano rispetto all’emergenza sanitaria e all’esigenza di gran parte della popolazione di continuare a lavorare, studiare e, perché no, cercare di svagarsi stando tra le quattro mura domestiche. Il problema, però, è solo spostato e domande come «Che fine fanno i miei dati personali?», «Chi li raccoglie e li utilizza lo fa adottando tutte le misure di sicurezza del caso?», «Posso fornire solo le informazioni minime?» e «In tal caso mi viene comunque assicurato il servizio?» non perdono assolutamente di importanza. Anche perché una volta – si spera il più presto possibile – passata l’emergenza, i dati che abbiamo consegnato ai gestori delle app continueranno a rimanere nei loro server e a essere utilizzati – o, come si dice nel linguaggio della privacy, «trattati» – per scopi a noi in gran parte sconosciuti.

Le app per tracciare e geolocalizzare
Gli strumenti di difesa ci sono. La Ue si è dotata da quasi due anni di un sistema comune di protezione dei dati personali – il Gdpr (General data protection regulation) -, ma l’attuale situazione corre più veloce di tutte le regole. Senza parlare delle varie questioni che stanno sorgendo sui luoghi di lavoro, dalla rilevazione della temperatura dei dipendenti alle comunicazioni dei nomi di chi è obbligato alla quarantena. E, restando alle app, ci sono anche quelle per geolocalizzare i contagiati dal coronavirus, che sono state utilizzate in Corea del Sud, ma anche da noi se ne parla. O quella a cui ha fatto ricorso la Lombardia per calcolare – su base, si assicura, assolutamente anonima – la percentuale degli spostamenti di quanti dovrebbero, invece, rimanere a casa. A proposito di questi stumenti, il Comitato europeo per la protezione dei dati ha raccomandato di utilizzare i dati personali in forma anonima e aggregata.

I padroni di internet
L’attuale situazione ci ha fatto capire, caso mai non fosse già chiaro, che non c’è alternativa: per accedere a determinati servizi bisogna consegnarsi mani e piedi ai grandi protagonisti della rete. Non lo facciamo solo da privati cittadini. È un passo a cui ci inducono anche le amministrazioni pubbliche: se i nostri figli vogliono seguire le lezioni online, devono registrarsi su Google Classroom o altre applicazioni. E lo stesso devono fare i professori. Questo non perché tra i big del web e la Pa ci sia connivenza, ma perché questo offre il mercato. Una realtà che il precipitare degli eventi ha reso ancor più evidente. Così come ha rimarcato un dato ben noto: le app sono solo in apparenza gratuite. A parte le versioni “pro” a pagamento, la moneta con cui le paghiamo sono i nostri dati personali.

C’è, poi, il problema della sicurezza dei dati. «Ogni piattaforma – spiega Gabriele Faggioli, direttore scientifico dell’Osservatorio information security & privacy del Politecnico di Milano – ha le proprie politiche di gestione: le meno mature hanno le informazioni di dettaglio registrate sui singoli server e si appoggiano a servizi esterni per le statistiche e hanno scarso controllo sulle informazioni che generano. Le più mature hanno infrastrutture centralizzate per la raccolta dei dati e un’alta capacità di elaborazione di questi ultimi. Dal punto di vista della cyber security, dunque, il livello di protezione può essere molto variabile».

Il presupposto da cui si parte è quello di profilarci e di costruire, grazie ai dati che lasciamo nella nostra navigazione sulla rete, identità utili per proporci altri servizi e prodotti. Se in questo momento diventa difficile sottrarci a tale prospettiva perché alcuni strumenti digitali sono indispensabili, è utile, però, avere consapevolezza di che cosa facciamo quando diamo il consenso al trattamento dei nostri dati. Saperlo ora, ci consentirà in un prossimo futuro di decidere se ritornare sui nostri passi – chiedendo alle piattaforme, come prevede il Gdpr,di revocare il nostro consenso – o lasciare tutto com’è.

Fonte:  Il Sole24Ore Norme e Tributi

Coronavirus, arriva il monitoraggio via smartphone per contenere il contagio

23 Marzo 2020

Una chiamata all’industria e ai centri di ricerca per trovare il modo di usare l’intelligenza artificiale e i big data per modellare meglio la policy
di Luca De Biase

Il governo esce con una chiamata per proposte di applicazioni per smartphone e altre tecnologie di telemedicina da usare allo scopo di monitorare in modo più preciso l’evoluzione dell’epidemia di Covid-19.

Intanto continua a lavorare alla creazione di una task force di esperti e data scientist per studiare i dati disponibili e quelli che lo saranno presto, in modo da modulare meglio gli interventi di contenimento, usando anche l’intelligenza artificiale. Il decreto con le nomine di questi esperti, atteso da giorni, potrebbe arrivare martedì 24.

Ma vediamo che cosa sta succedendo nel dettaglio.

Lunedì 23 parte dunque una chiamata per raccogliere nei prossimi tre giorni le migliori proposte di soluzione tecnologica al problema di monitorare l’epidemia: cioè conoscere meglio i movimenti delle persone al fine di stringere i controlli nei luoghi dove il contagio è più probabile e, si spera, a tendere allentare i controlli dove è meno probabile.

Si tratta per esempio di capire se mettere in giro delle app chiedendo ai cittadini di scaricarle sul loro telefono e accettare di essere da quel momento seguiti nei loro movimenti. Oppure se è meglio cercare altre soluzioni, comprese quelle che richiedano una nuova legge ma servano a ottenere il risultato di tracciare tutti i cittadini senza un loro intervento volontaristico. Ovviamente salvaguardando le regole sulla privacy ma operando in modo adeguato alle condizioni temporanee definite dall’emergenza.

L’iniziativa è del ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione con il ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), con il supporto di un comitato scientifico multidisciplinare. L’invito è rivolto alle imprese e al mondo della ricerca. Occorre trovare le soluzioni tecniche per raccogliere tutti i dati possibili riguardanti, potenzialmente, tutti i cittadini, in modo da contrastare la diffusione del Covid-19.

La gigantesca recessione dell’economia decisa con la chiusura in casa dell’intera popolazione italiana potrebbe essere corretta in teoria innanzitutto liberando le persone che non rischiano il contagio. Ma per sapere chi sono costoro occorrerebbe sapere come si muovono e impedire loro di avvicinarsi ai focolai di contagio o ai contagiati.

Si aprono problemi strategici, giuridici, politici e sociali di grande importanza. Ma l’uso sistematico di tecnologie di analisi dei dati e intelligenza artificiale per contenere il contagio ha già dato prova di funzionare in altri paesi. E questa strada va comunque studiata più a fondo.

Per questo il governo chiede «a tutte le Pubbliche Amministrazioni, enti ed organizzazioni pubbliche e private, alle aziende che stanno lavorando o che hanno già realizzato soluzioni tecnologiche nei due ambiti della call, di inviare: 1) app e soluzioni tecniche di teleassistenza per pazienti domestici, sia per patologie legate a Covid-19, sia per altre patologie, anche di carattere cronico. Rientrano in questo ambito app e chatbot per l’automonitoraggio delle condizioni di salute, rivolte a tutti i cittadini o solo ad alcune fasce (come i soggetti sottoposti a isolamento fiduciario); 2) tecnologie e soluzioni per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio. Rientrano in questo ambito strumenti di analisi di Big Data, tecnologie hardware e software utili per la gestione dell’emergenza sanitaria».

Resta il fatto che anche conoscendo gli spostamenti di tutti gli italiani, per sapere quali sono le aree di rischio occorrerebbe conoscere molto meglio chi sono i malati asintomatici. Ma i tamponi scarseggiano in modo drammatico. Anche per questo i ministeri insistono a richiamare l’attenzione anche su un’altra chiamata, attiva da qualche giorno, per chiedere alle aziende di trovare soluzioni adatte a moltiplicare la produzione e la distribuzione di tamponi e altre forme di diagnosi utile a conoscere la reale diffusione del virus.

Fonte: IlSole24Ore – Tecnologia economia digitale

Coronavirus: solo grazie alla privacy lo Stato può convincere i cittadini a farsi pedinare con una app

20 Marzo 2020

Tali informazioni sarebbero estremamente preziose per studiare la propagazione dei virus e possibilmente per contenere l’epidemia

BRUXELLES. Negli ultimi giorni si è parlato molto di geo-localizzazione e tracciamento degli individui al fine di contenere l’emergenza del corona-virus. Si tratterebbe di sviluppare delle app estremamente precise in grado di registrare il percorso di individui infetti, il loro stazionamento in determinati luoghi e l’interazione con altre persone. Tali informazioni sarebbero estremamente preziose per studiare la propagazione dei virus e possibilmente per contenere l’epidemia. Si è fatto riferimento ai casi di cui abbiamo già notizia in Cina, Corea del Sud, Singapore ed Israele, dove tecnologie del genere sono già state testate, apparentemente con un certo successo (benché ancora non possiamo ancora essere sicuri al 100% della loro efficacia). Ad ogni modo, questi casi sono stati oggetto di dibattito perché tutti comportano una forte compressione della privacy, benché in misura diversa da paese in paese (in ragione dei differenti sistemi politici e giuridici).

La privacy, appunto. Non appena si è parlato di tracciamento dei singoli individui, e non di semplice raccolta di dati anonimi ed aggregati, in molti sono saltati sulla sedia constatando le implicazioni di un tale trattamento con la privacy. Giustamente, sia lo European Data Protection Board che il Garante Privacy italiano sono intervenuti per rammentare i limiti entro cui l’uso di una tale tecnologia si può muovere. Sui media però il tema si è incanalato su di un binario sbagliato: il problema sembrerebbe consistere in una sorta di ipotetica negoziazione tra coloro che difendono la privacy e quelli che invece vogliono combattere l’epidemia. Messa in questi termini, e facendo della privacy solo un problema nella lotta contro il corona-virus, l’esito è scontato: il comune cittadino al bar non ci pensa due volte a rinunciare alla privacy, visto che lo fa già molto spesso navigando in Internet per futili motivi, figuriamoci se non potrà farne a meno di fronte ad una tragedia, come quella del corona-virus, enorme in termini di perdita di vite umane e di cataclisma economico. Chiunque suggerirebbe di rinunciare alla privacy in tale contesto, ed il discorso su come contemperare i vari interessi in gioco rischierebbe di essere visto come un surreale esercizio accademico, avulso dalla tragedia che stiamo vivendo.

Il discorso deve pertanto essere risettato completamente: la normativa sulla privacy è sì un limite all’operatività delle app sul tracciamento individuale delle persone, ma è anche e soprattutto l’unica chance per far sì che tali app funzionino effettivamente e ci aiutino a raggiungere lo scopo, e cioè a sconfiggere l’epidemia. Mi spiego meglio.

L’efficacia delle app sul tracciamento individuale è legata alla loro adozione volontaria e diligente da parte delle persone, non certo ad una imposizione per legge. In un paese come l’Italia (ma anche in qualsiasi altra democrazia) sarebbe inconcepibile pensare di obbligare le persone a scaricare una certa app e tenere con sé sempre il cellulare. Al di là delle criticità giuridiche di un tale obbligo, c’è proprio un problema di fatto, si tratterebbe di un qualcosa troppo difficile da imporre in concreto e tempestivamente (soprattutto all’inizio di un fenomeno epidemico). Un cellulare può essere condiviso, intestato a terzi, lasciato a casa, disattivato, dimenticato o gettato via intenzionalmente, ecc. Neanche una dittatura sarebbe grado di imporre il rispetto di una tale obbligo, ed infatti persino in Cina, per quanto riguarda la sorveglianza di massa, si propende di più per il riconoscimento facciale.

Come fare quindi a convincere le persone ad adottare tali app ed usarle diligentemente? Come detto poc’anzi, tutti noi saremmo idealmente disposti a sacrificare la riservatezza dei dati personali in vista della potenziale salvezza della salute nostra, dei nostri cari e di qualsiasi altro. Tuttavia, al momento pratico, quando ci viene chiesto di farci “pedinare”, sorgono delle legittime domande: come verranno effettivamente usati i miei dati? Potrebbero essere condivisi con terzi per usi diversi? Qualsiasi ufficio dello Stato potrebbe averne accesso per verificare dove mi trovavo? Potrei subire un danno, una multa, una perdita per l’utilizzo dei miei dati per scopi differenti dalla lotta all’epidemia? Sono domande legittime che qualsiasi cittadino, senza particolari scheletri nell’armadio, si porrebbe lecitamente. Volgarizzando un po’, siamo tutti disposti a sacrificare la riservatezza di fronte allo Stato purché si tratti dei dati personali di qualcun altro. Ed infatti, quando realizziamo cosa significhi il nostro tracciamento individuale, e cioè l’essere noi seguiti dappertutto dall’occhio invisibile della Protezione Civile, a quel punto il valore dei nostri dati personali appare più chiaro. Persino quando si tratti delle stesse informazioni che normalmente si regalano per fare test improbabili su Facebook o farsi rimbalzare su Tinder.

Le regole sulla privacy intervengono proprio in questa fase. E’ in virtù di questa normativa misteriosa ed apparentemente elitaria che i dati raccolti con l’app di geolocalizzazione, che così tanto raccontano della nostra vita personale, verrebbero “blindati”. Come si sono sforzate di spiegare le varie autorità della privacy, l’articolo 15 della Direttiva europea ePrivacy prevede, se sono in ballo la sicurezza nazionale e pubblica, che lo Stato si attribuisca per legge l’eccezionale potere di pedinarci, ma che allo stesso tempo siano fissate una serie di garanzie a tutela dei cittadini: l’uso dei dati in questione dovrebbe essere eccezionale, giustificato per quanto riguardo la tipologia dei dati prescelti, limitato nel tempo, circoscritto nello scopo, e rafforzato da una serie di misure tecnologiche a difesa della sicurezza dei dati stessi. Gli stessi dati dovrebbero essere distrutti alla fine del processo, od eventualmente anonimizzati. Lo Stato come Google, in altre parole.

Questo è il lato un po’ paradossale della vicenda. Da anni esiste un mercato, più o meno autorizzato, dei dati di geo-localizzazione. Con il tempo operatori mobili, produttori di cellulari, piattaforme e app hanno raccolto una inusitata quantità di informazioni che è stata accumulata nei server per creare guadagno, e non certo per occupare spazio nei microchip. Solo per quanto riguarda i dati di geo-localizzazione, le informazioni che gli operatori mobili hanno di noi sono piuttosto importanti, mentre tale livello di informativa diventa terrificante nel mondo online, giacché app e piattaforme possono essere molto più precise delle celle telefoniche, raccolgono dati più sofisticati e per lungo tempo si sono mosse in un regime meno regolamentato (e forse ancora oggi). In altre parole, alcune multinazionali ed i loro clienti sanno moltissimo di noi grazie semplicemente ai dati di localizzazione: se abbiamo un amante, se siamo vegani o carnivori, se frequentiamo sale bingo o night club, se siamo sportivi o facciamo solo finta di esserlo (come il sottoscritto). Ma tutto ciò non ci ha mai creato grande sconforto, perché siamo abituati a fidarci più delle varie Maps che dello Stato. Quando però ci viene il dubbio che qualche funzionario statale possa sapere dove ci troviamo durante la giornata, a quel punto riscopriamo il valore della privacy. Ma tant’è. Non è questo il vero problema da sconfiggere in tempi di pandemia, il problema è sconfiggere la pandemia stessa, e la normativa sulla privacy è il solo strumento con cui lo Stato possa ragionevolmente convincere i cittadini a farsi pedinare con una app.

Fonte:  La Stampa – Esteri

Coronavirus, la privacy può attendere: tutti sorvegliati

19 Marzo 2020

Il governo si affida alla tecnologia per tracciare il virus attraverso i cellulari. Gli esperti: “Va bene, purché gli utenti siano avvertiti” di Giovanni Rossi

Spaventato dal Coronavirus, il governo valuta nuovi strumenti per fermare i contagi. E dopo la lunga serie di decreti e Dpcm che hanno scandito queste settimane, ora pensa all’ipotesi di un contrattacco tecnologico. “In questa emergenza le telecomunicazioni possono aiutare la Protezione Civile, l’Istituto Superiore di Sanità, le Regioni. Siamo in grado di mettere a disposizione informazioni aggregate ricavate dai dati relativi alla mobilità dei clienti, garantendo il rispetto della normativa europea Gdpr”, spiega Asstel, l’associazione che riunisce gli operatori tlc.

Ma il governo pensa a strumenti di controllo più raffinati del mero esame delle celle telefoniche alla base dell’ultima strigliata ai cittadini lombardi per mobilità tuttora troppo elevata. Gli esempi internazionali vanno tutti in questa direzione: dalla Cina (che nell’emergenza sanitaria ha messo a frutto il controllo totale dei Big Data), agli Stati Uniti (dove l’amministrazione Trump sta discutendo con la Silicon Valley l’uso sistematico della geolocalizzazione), alla Corea del Sud, dove tutte le competenze tecnologiche del Paese sono state arruolate per frenare i contagi.

“In Corea del Sud – sottolinea Massimo Canducci, capo innovazione del gruppo Engineering – la questione è stata affrontata in modo molto pragmatico. Le immagini delle telecamere di sicurezza, le transazioni delle carte di credito, i dati di posizionamento rilevati da smartphone automobili sono stati incrociati ed elaborati. Questo ha consentito di ridurre drasticamente le dimensioni del contagio identificando i cittadini potenzialmente infetti”.
Centinaia di sospetti positivi sono stati così rintracciati (e poi sottoposti a tampone), tuttavia al prezzo di un’anomizzazione dati tutt’altro che inappuntabile, con sgradevoli riflessi personali e sociali.

“Il fatto che una democrazia evoluta come la Corea del Sud abbia accettato questa sfida testimonia quanto l’emergenza Coronavirus stia lambendo il confine della privacy personale“, considera Giovanni Andrea Farina, fondatore di Itway, operativa nei settori dell’IT e della sicurezza informatica. Lo scenario epidemico potrebbe ispirare soluzioni forzate? “Le ipotesi di lavoro sono infinite ma necessitano tutte di una chiara esplicitazione – puntualizza Farina –. Ad esempio, non credo sarebbe uno scandalo il tracciamento degli smartphone per verificare il rispetto della quarantena nei soggetti positivi asintomatici. Poi una specifica App potrebbe verificare in diretta tutti i dati dei pazienti”.

Molte società stanno lavorando a soluzioni di questo tipo. Luca Foresti, ad del Centro medico Santagostino e partner di Ascolto onlus (che raccoglie fondi per la lotta al Covid-19), dichiara: “Stiamo effettuando gli ultimi test su una App da scaricare sui cellulari che permetterebbe alla Protezione civile di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive, di avvertire chi è entrato in contatto con questi soggetti, di individuare sul nascere lo sviluppo di nuovi focolai e dettagliare geograficamente l’emergenza. Anonimato garantito“. Aspettando novità, il capo della Protezione civile Angelo Borrelli tira dritto: in questi casi “prevale sempre la salute pubblica”. “I diritti dei cittadini possono subire limitazioni anche incisive purché proporzionali a esigenze specifiche e temporalmente limitate”, conferma il Garante Privacy Antonello Soro. Big Data contro Coronavirus. Anche l’Italia ci prova.

Fonte: Quotidiano.net – Cronaca

Privacy e coronavirus, il Viminale preoccupato dal tracciamento cellulari della Lombardia

19 Marzo 2020

Uffici al lavoro per capire le conseguenze giuridiche: una volta aperta la strada chi impedirebbe di farlo anche ai piccoli comuni?

ROMA. Che la Regione Lombardia avesse chiesto ai gestori telefonici di tracciare gli spostamenti dei suoi cittadini, al ministero dell’Interno lo hanno scoperto leggendo i giornali. E sono rimasti sbalorditi. Primo perché, secondo i dati del movimento attraverso gli spostamenti dei cellulari, il 40% dei lombardi continua a muoversi. Secondo, perché quel tipo di controlli, da Grande Fratello, sono una prerogativa dell’autorità giudiziaria, non di un’autorità amministrativa. E se anche hanno poi visto i distinguo e le precisazioni della Giunta lombarda, e la sottolineatura che si è trattato di un esame di “big data”, con analisi quantitativa e anonima, al Viminale la sorpresa ugualmente s’è impastata con una certa irritazione. Perciò sono stati messi al lavoro gli uffici, sia per capire esattamente i termini di questo tracciamento che andrebbe avanti da qualche giorno, sia per valutare le possibili ricadute giuridiche.

Il tema non è banale. Spiegano fonti del Viminale che è stato creato un precedente che va valutato a fondo. «Oggi è stata la Lombardia, domani potrebbero muoversi tutti gli altri presidenti regionali. E se si permette questo tipo di accertamento a una Regione, perché non a un Comune? Di questo passo, si può arrivare anche a piccolissimi Comuni con poche centinaia di abitanti. E allora, anche senza nomi e cognomi, il tracciamento può essere davvero invasivo».

Forse era inevitabile che ci si arrivasse. Sui giornali è pieno di articoli sulla Cina o la Corea o Israele che utilizzano cellulari e app per tenere sotto controllo i propri cittadini. Giusto ieri, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, diceva in un’intervista radiofonica: «Il tracciamento dei movimenti attraverso i cellulari per limitare la diffusione del coronavirus secondo me è un’ottima soluzione. Il problema è che siamo in un Paese nel quale la limitazione della privacy e di libertà personale sono evocate a ogni pie’ sospinto. Ma siamo in emergenza, e ci vuole un provvedimento che ci legittimi a fare tutte queste attività». Un intervento del Garante per la Privacy in effetti è dietro l’angolo e Zaia concludeva: «A noi hanno proposto dei software che sono stratosferici, però mi metto nei panni dei cittadini, e quindi bisogna che ci sia una legittimazione giuridica sennò poi va a finir male».

Lo stesso assessore lombardo Giulio Gallera, che in questi giorni è uno dei più esposti nella lotta al virus, e che ha avuto per primo sul tavolo il risultato del tracciamento, ha tenuto a precisare che «è un’applicazione che le grandi compagnie telefoniche hanno messo a disposizione per vedere in maniera aggregata e totalmente anonima il flusso delle persone, come si sono mosse all’interno della regione o fuori. Nessuno controlla come il Grande Fratello».

Fonte: La Stampa – Politica

Speedtest di Ookla certifica l’effetto COVID-19: velocità di connessione a picco in Italia

 17 Marzo 2020

Ookla, famosa ai più per il suo speedtest per la verifica della propria connessione a Internet, sta monitorando le zone colpite dall’emergenza coronavirus, tra cui Italia e Lombardia e i risultati parlano chiaro

Lo stiamo sperimentando in molti in questo periodo di telelavoro forzato: le nostre connessioni sembrano essere diventate più lente. E ora arrivano i primi dati che certificano che non si tratta solo di un’impressione, ma che l’impatto dell’emergenza coronavirus anche sulla rete italiana c’è: la fotografia effettuata da Ookla, l’azienda meglio nota per il suo ubiquo Speedtest, parla chiaro.

I grafici mostrano l’andamento da fine dicembre 2019 alla scorsa settimana della velocità media della rete mobile e fissa (in alto) e della latenza (in basso), in Italia e nella sola Lombardia, la regione più colpita dall’epidemia. Dopo un leggero calo della velocità media, con un aumento contestuale della latenza, nella settimana del 24 febbraio, dopo l’entrata in vigore del decreto che estendeva le zone rosse e i primi richiami al telelavoro, si nota la decisa picchiata delle prestazioni della rete italiana, sia mobile che fissa, dopo il 2 marzo, quando sono entrate in vigore in tutta Italia le misure restrittive che hanno bloccato il paese.

La velocità media delle connessioni in Italia è scesa al di sotto dei 60 Mbit/s, toccando un nuovo minimo rispetto al congestionatissimo periodo dei giorni di Natale 2019. Se la cava meglio la Lombardia, ma solo perché parte da velocità mediamente più elevate, ma come si può vedere il tracollo è stato più significativo per le connessioni fisse, con un calo di quasi 10 Mbit/s in media. Praticamente allineato invece l’andamento delle connessioni mobili tra Lombardia e il resto dell’Italia nel loro calo di prestazioni.

Quello che questa fotografia non dice è che chi vive in una grande città coperta da fibra ottica fino all’unità immobiliare avrà notato magari un certo rallentamento ma non in grado di pregiudicare la propria operatività, ma chi abita appena fuori ed è ancora connesso solo via rame, magari con una linea ADSL da pochi megabit, sta probabilmente facendo fronte a problemi di connettività ben più seri.

Fonte: Digital Day