Coronavirus, misurare la febbre ai dipendenti? Scoppia il caso privacy

10 Marzo 2020

C’è una questione giuridica che sta diventando dirimente. Perché impatta sulla salute dei lavoratori e sulla produttività delle aziende, interessa anche le possibili misure anticontagio da dover prendere quando si lavora in linea nella catena di montaggio seppur rispettando la distanza minima tra due persone contenuta nel decreto dell’8 marzo. Le attuali leggi sulla privacy non consentono ai datori di lavoro di misurare la febbre ai loro dipendenti con l’utilizzo degli scanner come avviene negli aeroporti. La differenza sostanziale tra i due contesti è che in fabbrica il dipendente ha un nome e un cognome e quindi non è un dato minimizzato e anonimo come lo è il passeggero che arriva in uno scalo. Le aziende di marca per questo stanno facendo un lavoro di sensibilizzazione perché hanno la priorità di garantire la sicurezza degli stabilimenti e quindi la continuità produttiva necessaria per l’approvvigionamento dei beni primari, come alimenti, detergenti casa e persona.

Immaginate che cosa può succedere se in un grande impianto industriale si verifichi solo un caso di contagio di coronavirus. Varrebbero le disposizioni sanitarie che valgono per tutti: rischio di chiusura dell’impianto per 14 giorni, quarantena per tutti i colleghi. L’authority della privacy, guidata da Antonello Soro, interrogata sostiene di aver comunicato le proprie linee guida il 2 marzo, precedenti però al blocco negli spostamenti esteso da oggi a tutta l’Italia. Il Garante ha spiegato che le misure di carattere sanitario, come la rilevazione della febbre dei dipendenti, vanno coordinate e gestite dagli enti preposti, come le autorità sanitarie e la protezione civile, le uniche al momento tenute a farlo ma stentiamo a credere che possano farlo ora in questo momento di emergenza.

Il lavoratore potrebbe sottoporsi alla rilevazione con i termoscanner soltanto su base volontaria, ma anche questo sarebbe da escludersi in ragione dello stato di soggezione dello stesso nei confronti del datore di lavoro, rilevano alcuni giuristi. Spiega l’avvocato Massimo Maggiore, che il Garante ha imposto alle aziende di astenersi dall’adozione di misure fai da te che comprendano la raccolta a priori e in modo sistematico e generalizzato di informazione sulla presenza di eventuali sintomi influenzali. Però Maggiore rileva come possa configurarsi in questo caso la presenza di un interesse pubblico superiore come prevede l’articolo 9 della normativa europea Gdpr per procedere al trattamento di dati sanitari. L’avvocato Daniele Vecchi, partner dello studio Gop, ritiene sia necessario un giusto bilanciamento fra i due interessi, ma crede che in questo caso possa far leva il decreto 81 del 2008 per la sicurezza sui luoghi di lavoro che permette al datore di lavoro, tramite il medico aziendale, di minimizzare i dati e al tempo stesso tutelare la sicurezza del lavoro e dei lavoratori.

Ha destato interesse il caso della multinazionale Abb che ha misurato la temperatura ai dipendenti degli stabilimenti di Sesto San Giovanni e Vittuone. Una misura che qualche giorno fa aveva inasprito il rapporto con il sindacato per il mancato confronto. “L’emergenza Coronavirus è iniziata il 23 febbraio. Nonostante le richieste di incontro non c’è stata la possibilità di fare un punto, neanche via Skype», lamenta Mirco Rota di Fiom Cgil. Con l’allargamento della zona arancione a tutta Italia Abb potrebbe estendere la misura agli stabilimenti di Frosinone e Pomezia. Anche nella sede di Marcegaglia di Ravenna dalla mattinata di martedì si entra dopo essere passati sotto lo scanner che misura la temperatura. Per gli 870 dipendenti la mensa è chiusa e vengono distribuiti pasti freddi. In questo caso la direttiva è stata votata e approvata dai lavoratori. Perché chi va al lavoro si sente più tutelato.

Fonte: Corriere della Sera – L’economia